Comitato Notarile della Regione Campania

Massime

MASSIME NOTARILI IN MATERIA DI DIRITTO SOCIETARIO

La redazione delle massime, al di là dell’interesse culturale, nasce dalla volontà di aiutare a risolvere le problematiche vissute quotidianamente nell’esperienza notarile. Dal suo osservatorio privilegiato il notaio percepisce effetti positivi e criticità delle normative di nuova introduzione e concorre utilmente all’evoluzione del diritto. L’impegno di studio della Commissione è fortemente motivato dal desiderio di apportare, con l’espressione delle logiche e degli approfondimenti culturali maturati nell’esperienza professionale di ogni giorno, il suo ausilio all’interpretazione quanto più coerente possibile del sistema società. Poiché è ovvia la possibilità di riesaminare ogni questione proposta ed affrontata a seguito di interventi normativi e giurisprudenziali o di innovative riflessioni dottrinali, è utile ricordare che le massime dai nn. 1 a 18 sono collocate temporalmente negli anni dal 2008 al 2010, quelle dai nn. 19 a 30 nel biennio 2015 – 2016, quelle dal n. 31 al n. 36 nel biennio 2017 – 2019, quelle dal n. 37 al n. 41 sono con ogni evidenza le massime del lockdown 2020 ed infine le massime 42 e 43 nel 2021. 
A cura della Commissione Studi Societari Marina Comenale Pinto

La Commissione Studi in materia societaria, istituita dal Comitato Notarile Regionale della Campania nel 2008, è attualmente composta dai notai Teodora Scarfò, Coordinatore, Vincenzo Calderini, Alberto Caprioli, Umberto D’Angelo, Matteo D’Auria, Marco de Ciutiis, Angelo De Stefano, Antonino Gibboni, Michele Graziano, Michele Nastri, Luigi Pomponio, Rolando Quadri, Professore associato di Diritto Privato, e Giuseppe Satriano, dalla dott.ssa Rosa Pezzullo, Consigliere di Cassazione, dal dott. Enrico Quaranta, Magistrato, e dall’Avv. Nicola Rocco di Torrepadula, Professore Ordinario di Diritto Commerciale.

Nelle società a responsabilità limitata, in caso di pignoramento della quota di un socio, l’esercizio del diritto di voto spetta al socio stesso fino a quando non sia stata notificata alla società, ai sensi dell’art.2471 c.c., la nomina del custode; dal momento della notifica della nomina, la legittimazione al voto spetterà al custode.

Nelle s.r.l. la disciplina circa la legittimazione al voto in caso di pignoramento della quota sociale può essere ricostruita ricorrendo all’interpretazione analogica. L’art. 2471 c.c., invero, disciplina l’espropriazione della partecipazione sociale, ma non regolamenta l’esercizio del voto a seguito del pignoramento; l’art. 2471bis c.c., inoltre, ammette che la quota possa essere oggetto di pegno, usufrutto e sequestro, rinviando, per la regolamentazione dei diritti patrimoniali e amministrativi connessi alla quota, alla normativa di cui all’art. 2352 c.c.

Tale ultima norma, peraltro, dettata per le S.p.a., disciplina l’usufrutto, il pegno ed il sequestro delle azioni, ma non il pignoramento. È tuttavia opinione comune in dottrina (per tutti v. GASPERINI, Pignoramento e sequestro di partecipazioni sociali, Torino, 2007) che per la disciplina dell’esercizio dei diritti amministrativi in caso di quota pignorata debba essere applicata analogicamente la normativa in materia di sequestro, data la comune funzione “conservativa” dei due istituti e la loro matrice giudiziale: in entrambi i casi, pertanto, la legittimazione al voto spetterà al custode nominato. Questa soluzione è avvalorata sia dal fatto che l’art.678 c.p.c., in relazione alle modalità esecutive del sequestro, fa rinvio alla disciplina del pignoramento, sia dalla espressa possibilità di conversione automatica del sequestro conservativo in pignoramento ai sensi dell’art. 686 c.p.c.

Se quindi, in caso di nomina del custode, non sembrano sussistere dubbi interpretativi circa l’identificazione del legittimato a votare, discorso diverso si pone nell’ipotesi in cui il pignoramento si stato avviato ma non sia ancora intervenuta la nomina del custode. Sussiste un orientamento minoritario, espresso in isolate pronunce di merito (cfr. Tribunale di Roma 27 aprile 2011), secondo cui in tale evenienza il diritto di voto spetterebbe al creditore procedente, quantomeno in via concorrente con il debitore esecutato. Questa interpretazione troverebbe fondamento sia nelle analogie strutturali esistenti tra le figure del pegno e del pignoramento, sia nella comune esigenza di evitare che il debitore possa far uso del proprio diritto di voto a danno della posizione del creditore. Lo scopo di proteggere tanto gli interessi del creditore pignoratizio quanto quelli del creditore procedente giustificherebbe quindi una lettura che attribuisca a quest’ultimo, almeno in via concorrente con il socio debitore, la legittimazione al voto in assemblea, costituendo tale soluzione un rimedio preventivo e più forte della generica tutela risarcitoria spettante al creditore danneggiato dal voto espresso in suo danno dal debitore (si pensi ad una delibera modificativa dell’oggetto sociale che sia strumentale ad un investimento sconveniente per la società e, conseguentemente, per l’integrità del patrimonio e della relativa garanzia generica ex art.2740 c.c.).

Il predetto orientamento, per quanto apprezzabile, non sembra poter essere condiviso, alla luce della norma contenuta nell’art. 559 c.p.c., che, nel disciplinare la custodia dei beni pignorati, dispone che “col pignoramento il debitore è costituito custode dei beni pignorati e di tutti gli accessori, compresi le pertinenze e i frutti, senza diritto a compenso. Su istanza del creditore pignorante o di un creditore intervenuto, il giudice dell’esecuzione, sentito il debitore, può nominare custode una persona diversa dallo stesso debitore”. La norma sembra non lasciar spazio a diverse interpretazioni. La finalità conservativa del pignoramento impone che, sin da subito, esista un custode dei beni, che, in mancanza di nomina specifica su richiesta di parte creditrice, sarà il debitore medesimo. L’orientamento prevalente e preferibile (in tal senso cfr. due pronunce del Tribunale di Milano, 14 e 24 febbraio 2012), infatti, alla luce di questo dato testuale, propende per l’attribuzione del diritto di voto al socio la cui quota sia stata pignorata fino a quando non sia stato nominato un diverso custode.

Accolta tale interpretazione, si pone il problema di identificare il momento preciso in cui la legittimazione passerà dal socio pignorato al custode. Si ritiene di poter identificare questo momento nell’avvenuta notifica della nomina del custode alla società ai sensi del primo comma dell’art.2471 c.c., e non necessariamente nel momento, di regola successivo, dell’iscrizione della stessa nel registro delle imprese. Orbene, è chiaro che, se la nomina risulti opponibile a terzi per effetto della pubblicità camerale, non vi saranno dubbi sull’identificazione del legittimato al voto; ma qualora la pubblicità non esista ancora per effetto della mancata iscrizione al registro imprese della nomina, non potrà che valere, quale regola spartiacque, la notifica alla società, presso la sede sociale, della nomina del custode. L’esercizio del diritto di voto, infatti, riguarda esclusivamente le dinamiche endosocietarie e non coinvolge direttamente interessi di terzi estranei alla società, ragion per cui deve ritenersi determinante, ai soli fini del corretto espletamento dell’attività assembleare, l’avvenuta notifica, con mezzi idonei, della nomina del custode alla società, costituendo, nella fattispecie, la pubblicità camerale un presupposto “rafforzativo”, e non già esclusivo, della legittimazione al voto.

A tal uopo assumerà un ruolo determinante il presidente dell’assemblea, chiamato a verificare l’identità e la legittimazione al voto dei presenti, e che dovrà assumere la responsabilità di accertare se il pignoramento della quota sia sfociato nella nomina di un custode, il cui nominativo sia stato notificato alla società. Pare evidente che una tale notizia dovrà essere chiesta all’organo amministrativo, che tendenzialmente, in qualità di amministratore unico, coinciderà nella stessa persona del presidente.

In caso di decisioni che debbano essere adottate in forma pubblica, il notaio verbalizzante che dovesse riscontrare, dalla pubblicità camerale, la presenza di un pignoramento di quota, sarà certamente tenuto, a fini prudenziali, a responsabilizzare il presidente dell’assemblea circa la verifica della esatta legittimazione al voto, facendo presente al medesimo i rischi di annullabilità della delibera che dovesse essere adottata con la partecipazione di chi non è legittimato al voto, quale può essere il socio la cui quota sia stata pignorata ed in presenza di un diverso custode nominato.

E’ possibile la nomina di un Liquidatore Unico nelle società cooperative, pur dopo che la Legge 27 dicembre 2017, n. 205 (cd. ‘Legge di Stabilità 2018’) ha imposto che L’amministrazione della società è affidata ad un organo collegiale formato da almeno tre soggetti. (1)

Il Legislatore, con la Legge di Stabilità 2018, per contrastare il fenomeno delle ‘false cooperative’, allo scopo dichiarato di favorire il rispetto, nelle società cooperative, del carattere mutualistico prevalente, ha operato in modo da aumentare la partecipazione dei soci ai processi decisionali, così da renderli più rigorosi e sicuri, evitando che l’affidamento del potere gestorio ad un solo amministratore possa favorire comportamenti illegittimi o non coerenti sotto il profilo mutualistico. La nuova previsione, per cui L’amministrazione della società è affidata ad un organo collegiale formato da almeno tre soggetti, deve essere letta, infatti, unitamente alla previsione, già esistente, secondo la quale la maggioranza degli Amministratori è scelta tra i soci cooperatori (ovvero tra le persone indicate dai soci cooperatori persone giuridiche). D’ora in avanti, dunque, non si daranno più società cooperative gestite da un Amministratore Unico, ciò che era pacificamente ritenuto possibile in dottrina, ad onta della rubrica dell’articolo 2542 codice civile e del tenore dello stesso, facente riferimento sempre, al plurale, agli amministratori.

Si ritiene che questa normativa non abbia alcun impatto sulla liquidazione delle società cooperative, in particolare non determinando la necessità che anche i liquidatori siano almeno tre.

Difettando una specifica disciplina relativa al liquidatore nell’ambito del Titolo VI del Libro V del codice civile, per effetto del richiamo generale contenuto nell’articolo 2519 cc., trova applicazione in materia, con riguardo alle società cooperative, l’articolo 2487 del codice; per detta norma la pluralità dei liquidatori è solo una eventualità che determina l’esigenza che l’assemblea, in sede di nomina, detti le regole di funzionamento del Collegio, ben potendo darsi il caso di liquidatore unico. Non sembra, infatti, sussistano difficoltà a superare il filtro di compatibilità di cui al richiamato articolo 2519 codice civile, neppure dopo la ‘Legge di Stabilità 2018’, in quanto diversi sono il ruolo degli amministratori ed il ruolo del/i liquidatore/i e (se non più il novero) il fine ultimo delle attività commesse agli stessi: differenza tanto evidente che viene pacificamente ritenuto legittimo far ricadere su un estraneo alla compagine sociale la nomina a liquidatore della società, investito della legale rappresentanza della stessa, nelle stesse società cooperative (in cui La maggioranza degli Amministratori è scelta tra i soci cooperatori) e nelle società in accomandita semplice, laddove la legale rappresentanza è altrimenti riservata esclusivamente ai soci accomandatari. E’ una differenza che riflette la diversità di condizione di una società nel pieno del proprio ciclo di esistenza rispetto ad una società che volge al termine dello stesso.

E’ vero che appare oggi superata la visione della tradizionale dottrina, per cui l’impresa collettiva in fase di liquidazione vede esaurito il suo esercizio attivo, con riduzione solo a talune operazioni, modifica dell’oggetto sociale e, conseguentemente, dei poteri degli organi gestori, dimensionati in funzione della minore estensione dell’oggetto sociale (posizione che valorizzava al massimo la formula ‘divieto di nuove operazioni’, di cui all’articolo 2279 codice civile); ed è vero che si ritiene in fase di liquidazione possa aversi anche l’esercizio attivo dell’attività di impresa. Questo, tuttavia, può aversi se funzionale e finalisticamente orientato alla conservazione del valore del patrimonio sociale e se utile per la migliore liquidazione della società. Il solo verificarsi di una causa di scioglimento, infatti, determina, già per gli amministratori stessi, una limitazione dell’ambito dei propri poteri di gestione che devono essere orientati ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale; quindi i liquidatori, una volta nominati, hanno il potere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione della società. Si è in una fase in cui non si avverte la medesima esigenza del coinvolgimento della compagine sociale nei processi decisionali che sta (vuol stare?) alla base della novità introdotta con la Legge di Stabilità 2018, circostanza resa ancor più evidente dalla destinazione del patrimonio sociale che residua post-Liquidazione, nelle società cooperative.

*******    

(1) La massima, sovrapponendosi ad una risposta a quesito dell’Ufficio studi CNN resa contemporaneamente allo studio che la Commissione aveva in corso, corrobora la convinzione che nelle cooperative si possa avere, anche dopo le recenti modifiche normative in tema di amministrazione, un Liquidatore Unico (risposta a quesito di impresa n. 55-2018 resa dall’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato a firma di Antonio Ruotolo e Daniela Boggiali).

La revoca dell’amministratore di società di persone nominato con l’atto costitutivo può essere decisa in assenza dell’amministratore da revocare, non dovendosi a tal fine tenere conto del suo consenso.

Con la massima in epigrafe si intende affermare con chiarezza quella che può sembrare una quasi ovvietà: la possibilità di revocare l’amministratore di una società di persone in assenza dell’amministratore medesimo.

Eppure tale quasi ovvietà ha impegnato in più di un’occasione la giurisprudenza della Cassazione e di merito e non è sconosciuto all’esperienza notarile, anche recente, il rifiuto d’iscrizione nel Registro delle Imprese di atti recanti la decisione unanime dei soci di revocare per giusta causa l’amministratore o gli amministratori in loro assenza. E’ per giunta recente (16 gennaio 2017) un provvedimento del Tribunale di Torino che, ammettendo il ricorso congiunto al giudice di tutti gli accomandanti per sentir pronunziare la revoca per giusta causa del socio accomandatario dalle funzioni di amministratore, induce a chiedersi se sia legittimo l’utilizzo del meccanismo giudiziale ex art. 2259, comma 3, c.c. quando il medesimo risultato può essere ottenuto con una decisione dei soci ai sensi dell’art. 2259, comma 1, c.c.-. E’ evidente che l’interrogativo sollevato dal provvedimento torinese ha un senso solo se si parte dal principio dell’irrilevanza della volontà dell’amministratore revocato costantemente affermato dalla giurisprudenza, in particolar modo della Cassazione, e così spesso mal recepito e disatteso dalla prassi dei Registri delle Imprese. Se, infatti, non si accettasse tale principio sarebbe difficile comprendere il dettato dell’art. 2259 nelle differenti ipotesi contemplate dai suoi tre comma. Sarebbe infatti scontato che il meccanismo negoziale avrebbe possibile utilizzo solo nel caso, praticamente di scuola, in cui l’amministratore partecipi sua sponte alla sua revoca. Quindi il primo comma, che sembra regolare l’ipotesi ordinaria, regolerebbe invece il caso più unico che raro dell’amministratore che presta il consenso alla sua revoca e contestualmente riconosce la fondatezza della giusta causa e quindi le sue responsabilità, con tutte le conseguenze che ne derivano, il secondo comma regolerebbe, e ciò sembra pacifico, la revoca dell’amministratore nominato con atto separato secondo le norme sul mandato ed il terzo comma prevederebbe invece l’ipotesi normale della revoca per giusta causa su domanda giudiziale di uno o più soci; quest’ultimo strumento, negando l’irrilevanza del consenso dell’amministratore revocato, sarebbe l’unico possibile in assenza della “collaborazione” di quel soggetto.

Come dimostrano i nuovi quesiti sull’argomento la confusione persiste. E ad aumentarla si aggiunge il tentativo di uscire dall’impasse del venir meno dell’amministratore (quando è unico) ricorrendo in analogia all’art. 2323, comma 2°, c.c., che consente la nomina nell’accomandita semplice dell’amministratore provvisorio nei casi di morte, recesso ed esclusione del socio accomandatario.

In realtà la questione era stata molto ben focalizzata ed affrontata in maniera articolata dalla sentenza di Cassazione 12 giugno 2009 n. 13761 ed era già stata risolta nel senso della massima da risalente ed autorevole dottrina (1). Risulta quindi agevole riaffermare il principio della revocabilità stragiudiziale dell’amministratore di società di persone senza il suo consenso ripercorrendo il ragionamento dei giudici della Suprema Corte (2).

La Corte, opportunamente, chiarisce in via preliminare l’ambito operativo degli artt. 2252 e 2259 c. c.-. L’articolo 2252 c.c. regola il rapporto tra i soci, l’art. 2259 c.c. regola invece il rapporto tra la società e l’amministratore.

Sul piano dei rapporti tra società ed amministratore occorre poi distinguere tra revoca dell’amministratore nominato con il contratto sociale e revoca dell’amministratore nominato con atto separato. Sgombriamo il campo dalla seconda ipotesi per la quale il 2° comma dell’art. 2259 rinvia espressamente alle norme sul mandato. La revoca del mandato è disciplinata dagli artt. 1723 e ss. c.c. Trasportata la disciplina del mandato in ambiente societario dobbiamo pensare per le società di persone ad un’ipotesi ordinaria nella quale il mandato amministrativo è conferito al socio, quindi anche nell’interesse del mandatario, e nella maggior parte dei casi da più soggetti, risolvendosi, quindi, essendo per definizione destinato al perseguimento di un affare d’interesse comune, in un mandato collettivo (l’ipotesi della società tra due soli soci più probabilmente sfocerebbe nel ricorso all’autority giudiziaria, non tanto per la revoca dell’amministratore quanto per lo scioglimento della società). Se l’atto separato di nomina nulla dice in ordine alla revocabilità, a norma del 2° comma dell’art. 1723 c.c. e dell’art. 1726 c.c. la revoca può sempre esercitarsi in presenza di una giusta causa e la sussistenza della giusta causa esclude la necessità dell’unanimità dei consensi. Il problema dell’unanimità si pone esclusivamente per la revoca non supportata dalla giusta causa, per la quale occorrerà però, nel presupposto che il mandato sia anche nell’interesse del mandatario, la previsione contrattuale della normale revocabilità. L’unanimità dei consensi del 1726 c.c. è quella dei mandanti, quindi non rileva in alcun modo la volontà dell’amministratore-mandatario.

L’applicazione combinata delle norme dell’art. 2252 c.c. e dell’art. 2259 c.c., comma 1°, è così circoscritta al solo caso dell’amministratore nominato con l’atto costitutivo. Unicamente in questo caso è necessaria la coesistenza dei presupposti dell’unanimità dei consensi e della giusta causa. Ma cosa deve intendersi per unanimità dei consensi? La Corte di Cassazione afferma che il combinato disposto delle richiamate norme va applicato tenuto conto del divieto di voto al socio che sia in conflitto di interessi con la società di cui all’art. 2373 c.c.; il divieto di esercizio del diritto di voto in conflitto d’interessi è principio di portata generale che non può essere disatteso e del quale, in materia di società di persone, è diretta applicazione anche l’art. 2287 c.c., che impone di non considerare il socio da escludere nel computo della maggioranza necessaria per l’esclusione. L’affermazione della portata generale del divieto è costante nella giurisprudenza della Cassazione (3) ed anche in dottrina.

E’ stato strumentalmente utilizzato in contrario il disposto del 3° comma dello stesso art. 2259; si è osservato che la previsione della facoltà per ciascun socio di richiedere al giudice la revoca per giusta causa dell’amministratore, senza che la revoca incida sulla sua qualità di socio, starebbe a significare che quando non interviene il giudice il consenso debba essere di tutti, anche del revocato. Sembra invece che l’art. 2259 regoli nei suoi tre comma tutte le ipotesi di revoca senza nulla dire sulle modalità che si presuppongono altrove disciplinate. I due primi comma operano il distinguo tra revoca dell’amministratore nominato con il contratto sociale e revoca dell’amministratore nominato con l’atto separato. Per il primo caso è affermata la necessità della giusta causa, alla quale si aggiunge la necessità dell’unanimità affermata dall’art. 2252, con il necessario temperamento, secondo l’opinione che qui si reputa preferibile, del divieto del voto in conflitto d’interessi dell’amministratore revocato, da cui discende inevitabilmente l’irrilevanza della sua presenza. Per il secondo caso si richiama la normativa sulla revoca del mandato. Infine il 3° comma dell’art. 2259 c.c. prevede quella che potremmo definire una “procedura d’emergenza” per tutti i casi in cui non si riesca ad ottenere il consenso dei soggetti che debbono prestarlo a norma dei due comma precedenti o per il caso in cui i presupposti della revoca siano ravvisati esclusivamente da un singolo socio o da alcuni soci. E’ riconosciuto infatti al socio un diritto individuale ad ottenere in via giudiziale la revoca dell’amministratore. Ma tale riconoscimento non consente di escludere l’interesse della società a provvedere alla revoca per le vie brevi in sede stragiudiziale.

La tesi secondo la quale per la soluzione stragiudiziale della questione necessiterebbe il consenso dell’amministratore da revocare, e quindi in conflitto d’interessi per la giurisprudenza ed in condizione di non poter giudicare se stesso per la dottrina, si traduce nell’affermazione che la revoca è condizionata al volere dello stesso soggetto da revocare, il quale, in definitiva, potrebbe sempre e comunque impedirla. Alla volontà del medesimo soggetto sarebbe rimessa conseguentemente la decisione sullo scioglimento della società che, salvo l’eventuale tempestivo intervento del giudice, risulterebbe inevitabile.

In uno stringente commento al più volte citato provvedimento del Tribunale di Torino (4), si ripete anche una risalente osservazione degna di nota: “subordinando la deliberazione di cui al comma 1 dell’art. 2259 al consenso di tutti i soci (compreso l’amministratore da revocare), si farebbe gravitare la fattispecie normativa su due elementi, il consenso unanime e la giusta causa, la cui contemporanea presenza sarebbe inutile, dato che il ricorrere dell’uno relegherebbe automaticamente l’altro al rango di pleonasmo logico: il consenso dell’amministratore alla propria revoca renderebbe infatti del tutto superflua l’esistenza della giusta causa”.

Accettata la tesi che relega all’irrilevanza la volontà dell’amministratore revocato e che ci consente di procedere alla revoca anche in assenza dello stesso, all’unanimità degli altri soci od a maggioranza se i patti sociali lo prevedono, dobbiamo chiederci cosa può accadere alla società priva dell’amministratore.

Il presupposto ovviamente è che l’amministratore revocato sia unico, altrimenti il problema non sussiste concentrandosi l’attività gestoria sugli altri amministratori.

Ma va considerato anche un altro presupposto. Potrebbe obiettarsi, alla luce della richiamata pronunzia del Tribunale di Torino, che il ricorso congiunto dei soci al Giudice offrirebbe il vantaggio di procedere in un unico contesto alla revoca dell’amministratore ed all’accertamento della giusta causa, eliminando in radice ogni incertezza. In realtà la revoca stragiudiziale e la revoca giudiziale producono effetti parzialmente diversi che rendono la prima preferibile. La sentenza dell’Autority giudiziaria che accerta la fondatezza della giusta causa sarà dichiarativa, darà legittimità alla decisione stragiudiziale di revoca e produrrà effetti retroattivi al momento nel quale la decisione fu presa dai soci, ex tunc. Ciò significa che se la pronunzia non è favorevole all’amministratore revocato e questi abbia continuato nell’ufficio, pur rimanendo salvi i negozi stipulati medio tempore, dovrà rispondere di tali atti ai soci nei rapporti interni. L’amministratore revocato che continui ad amministrare sa che tutto il suo operato, nelle more del giudizio diretto ad accertare la giusta causa, è completamente a suo rischio; quindi non avrà il compenso eventualmente pattuito e, se agisce colpevolmente in maniera inadeguata agli interessi della società, dovrà rispondere dei danni. Al contrario la sentenza che pronunzia la revoca giudiziale è sentenza costitutiva ed opera ex nunc. Quindi tutto ciò che farà l’amministratore scorretto fino al momento in cui è riconosciuta giudizialmente la fondatezza della domanda, è legittimamente compiuto, egli ha diritto al compenso pattuito e non potrà farsi alcuna questione di inopponibilità ai terzi delle operazioni intervenute durante lo svolgimento del giudizio. Il ragionamento ha senso solo qualora si voglia aprire alla posizione dei giudici torinesi. Non va però taciuto che in ben altro senso è la giurisprudenza di merito, secondo la quale la revoca giudiziale è ipotesi residuale, il cui esercizio è ammissibile solo qualora si provi l’inerzia della società o il disaccordo fra i soci. Il Tribunale di Napoli con una pronuncia del 2006 ha rigettato la richiesta di revoca dei soci evidenziando l’efficacia immediata della loro decisione stragiudiziale rispetto ad una decisione giudiziale e la sua iscrivibilità immediata nel Registro delle Imprese su richiesta degli stessi soci accomandanti ex art. 2189 c.c. (5).

Chiarito che la revoca per mano dei soci ha le sue ragioni e le sue utility, è evidente che il secondo dei presupposti esaminati ci conduce già oltre l’ipotesi dell’amministratore revocato acquiescente. In questo caso egli, o con dichiarazione espressa o tacitamente abbandonando l’amministrazione, esprimerà consenso alla decisione degli altri soci ed ovviamente potrà tanto ricomporre il dissidio partecipando alla nomina di un nuovo amministratore tanto invece agire per i danni chiedendo l’accertamento dell’illegittimità della revoca.

Cosa accade se invece l’amministratore resiste alla revoca, o espressamente o tacitamente, continuando nell’amministrazione? La società dovrà necessariamente agire in sede giudiziaria e, in assenza di amministratore, a tale limitato scopo provvederà alla nomina di un rappresentante ex art. 78 c.p.c.-. In assenza di un termine di legge entro il quale agire giudizialmente, deve ritenersi che il decorso di un tempo ragionevole, da valutarsi caso per caso, comporti la volontà di desistere dalla revoca.

Una volta rimosso dalla carica l’amministratore, ed il problema rimane identico sia nella revoca giudiziale sia in quella stragiudiziale, i soci tutti, compreso quello che è stato estromesso dall’amministrazione, dovranno procedere alla nomina di un nuovo amministratore. In assenza di accordo le strade possibili sono la richiesta di nomina all’Autority giudiziaria ex artt. 1105 c.c. o ex art. 2409 c.c., la trasformazione in altro tipo di società che consenta la nomina con modalità assembleari o lo scioglimento per l’impossibilità di raggiungimento dell’oggetto sociale.

Nel caso della società in accomandita semplice non sembra una soluzione il ricorso all’amministratore provvisorio ex art. 2323 c.c., in quanto ove ammissibile opererebbe solo un rinvio del problema ed è comunque soluzione avversata sia dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (6) sia dalla conforme giurisprudenza di merito che ritengono si tratti di nomina non applicabile in analogia. In argomento vanno segnalate alcune recenti aperture della giurisprudenza di merito che non sembrano tuttavia convincenti e che sicuramente costituiscono ad oggi l’eccezione rispetto a posizioni consolidate (7).

In chiusura, sotto il profilo redazionale, sembra opportuno sottolineare che nulla impedisce al notaio di ricevere in atto dichiarazioni dei soci sulla sussistenza della giusta causa e sui fatti che la integrano, ciò perché la giusta causa, per la revoca dell’amministratore di società di persone, è elemento qualificante la fattispecie normativa; la revoca dell’amministratore nominato con il contratto sociale in assenza di giusta causa è fattispecie inesistente. In argomento è interessante riportare alcune argomentazioni contenute in una recentissima sentenza della Suprema Corte (8), pronunziata in tema di società di capitali, ma riferibile per alcuni spunti anche alle società di persone. I giudici operano una rilevante riqualificazione della fattispecie, pur attenendosi poi per comodità alla terminologia tradizionale. Essi premettono all’esposizione in materia di giusta causa la costatazione dell’inadeguatezza dell’espressione “revoca” – utilizzata sia per le società di persone che per le società di capitali – ed affermano come in realtà meglio si attaglia alla fattispecie la figura del “potere di recesso ex lege”, che pone fine ex nunc al rapporto giuridico nato dal contratto. E’ evidente che la fattispecie “revoca dell’amministratore” nelle società di capitali è sostanzialmente differente dalla medesima nelle società di persone. La differenza di fondo, come si evince con chiarezza dalla sentenza della Suprema Corte, risiede nell’efficacia “a prescindere” della revoca assembleare nelle società di capitali, relegandosi la giusta causa ad elemento della fattispecie risarcitoria. Nelle società di persone, invece, come si è già precisato, la giusta causa è elemento costitutivo della “fattispecie revoca” e la sua sussistenza attiene alla tutela reale dell’amministratore e non solo al profilo risarcitorio. La rilevanza della sentenza ai nostri fini risiede nell’importanza che i giudici della Corte danno all’esplicitazione della giusta causa, quindi dei motivi della revoca, nella delibera assembleare e di conseguenza nella verbalizzazione della stessa, affermando che, pur non essendo ciò previsto dalla legge, “costituisce un’indubbia agevolazione probatoria”. Se l’esplicitazione della giusta causa può essere verbalizzata a fini probatori, a maggior ragione può, e forse deve, essere esplicitata nell’atto di revoca dell’amministratore di società di persone in quanto elemento costitutivo della fattispecie.

  1. M. GHIDINI, Società personali, Padova 1972, pp. 391 e ss.-.L’Autore (pp. 331-332), pur sottolineando come non si rientri nel concetto di conflitto d’interessi in senso proprio, evidenzia che nelle fattispecie in cui la modificazione del contratto importa o presuppone un giudizio (che il socio deve dare su se stesso) volto alla rimozione del socio da una data posizione sociale, la ragione del contrasto tra l’un socio e gli altri è predeterminata e prevalutata dalla legge; per tale ragione anche in questi casi, come nel conflitto di interessi, il socio in questione non partecipa alla decisione, “egli non può essere giudice di se stesso”.
  2. Fatto proprio dalla costante giurisprudenza di merito. Si vedano da ultimo Tribunale Milano, 13 novembre 2017; Tribunale Agrigento, 2 aprile 2015; App. Venezia, Sez. I, 29 marzo 2013; Trib. Roma, Sez. III, 31 dicembre 2014; Trib. Milano, Sez. VIII, 7 gennaio 2010; Trib. Cassino, 28 ottobre 2000. Più risalente, ma nella stessa direzione Trib. Catania, 19 aprile 1984.
  3. Cass., sez. II, 22 luglio 2002, n. 10683 (m. 556050); Cass., sez. II, 5 dicembre 2001, n. 15360 (m. 550860).
  4. S. TAURINI, in “Le Società”, 2/2018, pp. 176 e ss. L’autore si rifà a A. Nasi, Sulla revocabilità dell’amministratore nominato con il contratto sociale nelle società di persone, in Giur. It., 1959, I, 1, 523.
  5. Tribunale Cassino, cit.; Tribunale Napoli, 26 aprile 2006. Si osserva che allo scopo non occorre che i soci convochino un’apposita assemblea per la formazione della deliberazione poiché nelle società a base personale manca l’organo assembleare. Il Tribunale di Napoli giunge a revocare il provvedimento d’urgenza richiesto dagli accomandanti. Nella stessa direzione S.TAURINI, cit.-.
  6. V. per tutte Cass. 12732/1992.
  7. Tribunale Torino, 16 gennaio 2017, già citata in principio; Tribunale Milano, 9 novembre 2015.

Cass., 26 gennaio 2018, n. 2037.

“Fino all’operatività del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore […] le norme previgenti ai fini e per gli effetti derivanti dall’iscrizione degli enti nei Registri Onlus” continueranno ad applicarsi solo per le ONLUS che adeguano i propri statuti alle disposizioni del Codice del Terzo Settore entro la data del 30 giugno 2020 (cfr combinato disposto art. 101, comma 2, art. 104, commi 1 e 2 CTS, art. 5-sexies D.L. n. 148/2017 e art. 43, comma 4- bis D.L. 34/2019).

Tenuto conto di tale modulazione temporale, l’Agenzia delle Entrate, in occasione dell’appuntamento con il “Telefisco” del febbraio 2018, ha sostenuto che gli adeguamenti che le ONLUS dovranno apportare al proprio statuto entro il termine del 30 giugno 2020 per continuare ad applicare nel periodo transitorio la disciplina attualmente vigente, potranno anche essere adottati facendo decorrere l’efficacia delle modifiche statutarie dall’operatività del Registro unico nazionale del Terzo settore e dalla correlativa definitiva abrogazione della normativa ONLUS.

Per le ONLUS iscritte nel registro delle persone giuridiche, nel caso prospettato nella prassi amministrativa sopra indicata e cioè quando la delibera di adeguamento al CTS sia stata adottata con efficacia differita alla definitiva abrogazione della normativa ONLUS, l’approvazione regionale o statale di tali modifiche, attualmente prescritta ex art. 2 D.P.R. 361/2000, dovrà essere richiesta solo dopo il suddetto termine iniziale di efficacia delle modifiche stesse.

L’art. 101, co. 2, del D. Lgs. 3 luglio 2017 n. 117 – Codice del Terzo settore (CTS) – dispone testualmente che “Fino all’operatività del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, continuano ad applicarsi le norme previgenti ai fini e per gli effetti derivanti dall’iscrizione degli enti nei Registri Onlus, Organizzazioni di Volontariato, Associazioni di promozione sociale e Imprese sociali che si adeguano alle disposizioni del presente decreto entro diciotto mesi dalla data della sua entrata in vigore. Entro il medesimo termine, esse possono modificare i propri statuti con le modalità e le maggioranze previste per le deliberazioni dell’assemblea ordinaria.”

La L. 28 giugno 2019 n. 58 di conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 30 aprile 2019 n. 34 ha introdotto all’art. 43 un nuovo comma 4- bis, il quale prevede che: “In deroga a quanto previsto dall’articolo 101, comma 2, del Codice del Terzo settore, di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, i termini per l’adeguamento degli statuti delle bande musicali, delle organizzazioni non lucrative di utility sociale, delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale sono prorogati al 30 giugno 2020. Il termine per il medesimo adeguamento da parte delle imprese sociali, in deroga a quanto previsto dall’articolo 17, comma 3, del decreto legislativo 3 luglio 2017 n. 112, è differito al 30 giugno 2020”.

L’art. 101 co. 2 richiamato prevede quindi che gli adeguamenti al CTS, finalizzati in generale all’iscrizione nel relativo registro (allorchè verrà istituito) e alla conseguente assunzione della qualifica di Ente del Terzo Settore (ETS), producono taluni particolari e ulteriori effetti se deliberati entro il termine del 30 giugno 2020 come sopra prorogato.

Tali effetti riguardano “le norme previgenti ai fini e per gli effetti derivanti dall’iscrizione degli enti nei Registri Onlus, Organizzazioni di Volontariato, Associazioni di promozione sociale”, le quali norme, fino all’operatività del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, continueranno ad essere applicate agli enti già iscritti nei predetti Registri Onlus, ODV e APS purchè gli stessi adeguino i propri statuti alle disposizioni del CTS entro il suddetto termine del 30 giugno 2020.

In altri termini quindi, per ONLUS, ODV e APS, l’adeguamento dei rispettivi statuti alle disposizioni del CTS entro il 30 giugno 2020 è condizione necessaria affinchè il regime normativo di favore vigente per tali soggetti possa continuare ad essere applicato fino alla sua definitiva abrogazione che conseguirà alla piena operatività del Registro Unico Nazionale del Terzo settore.

Si tratta di effetti di grande rilievo sostanziale poichè incidono sul regime normativo e fiscale dei suddetti enti nel corrente periodo transitorio di durata ancora incerta, non essendo nota la data d’istituzione del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, e, pertanto, anche sotto tale aspetto, il tema dell’esatta individuazione delle corrette modalità di adozione delle decisioni di adeguamento si presenta senz’altro delicato.

In particolare, per le ONLUS le “ norme previgenti ai fini e per gli effetti derivanti dall’iscrizione” nei relativi registri rimarranno in vigore, senza soluzione di continuità, fino a quando non saranno applicabili le nuove disposizioni fiscali recate dal titolo X del Codice del Terzo Settore (e comunque non prima del periodo di imposta successivo a quello di operatività del Registro Unico) e fino a quel momento, secondo i principi sopra esposti, tali norme continueranno ad applicarsi solo per le ONLUS che si saranno adeguate alle disposizioni del Codice del Terzo settore entro la suddetta data del 30 giugno 2020 [1] .

Tenuto conto di tale modulazione temporale, l’Agenzia delle Entrate in occasione dell’appuntamento con il “Telefisco” del febbraio 2018 ha sostenuto che gli adeguamenti che le ONLUS devono apportare al proprio statuto entro il termine del 30 giugno 2020 per continuare ad applicare nel periodo transitorio la disciplina attualmente vigente, potranno essere adottati anche facendo decorrere l’efficacia delle modifiche statutarie a partire dall’operatività del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore e dalla correlativa definitiva abrogazione della normativa ONLUS.

Secondo tale orientamento, pertanto, per protrarre l’applicazione del vigente regime di settore è sufficiente che le ONLUS adeguino i propri statuti al CTS entro la data del 30 giugno 2020, anche prevedendo un’efficacia delle modifiche differita al momento nel quale il regime stesso verrà definitivamente abrogato.

Tale soluzione si pone come possibile alternativa alla scelta di deliberare gli adeguamenti con efficacia immediata e presenta l’indubbio vantaggio per le ONLUS di variare il proprio assetto statutario, adeguandolo al CTS, solo nel momento in cui sarà operativo il regime introdotto dal Codice, mantenendo quindi immutato il consolidato statuto vigente durante tutta la lunga ed incerta fase di attuazione della nuova normativa.

Per gli enti che adotteranno la scelta delineata dalla AE, infatti:

  1. lo statuto originario rimarrà fermo fino all’entrata in vigore della nuova disciplina fiscale del CTS e alla correlata definitiva abrogazione della normativa ONLUS;
  2. fino a tale momento, ex art. 101 co.2 cit., continueranno ad applicarsi le disposizioni di legge previgenti ai fini e per gli effetti derivanti dall’iscrizione nei Registri Onlus;
  3. successivamente, diventato operativo il Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, le modifiche statutarie di adeguamento al CTS deliberate saranno efficaci e l’ente potrà quindi assumere la qualifica di ETS richiedendo l’iscrizione nello stesso registro.

Concentrando l’attenzione sugli enti iscritti nel registro delle persone giuridiche, occorre tuttavia ricordare che per tali enti le modifiche statutarie in generale devono essere approvate ex art. 2 D.P.R. 361/2000 con le modalità e nei termini previsti per l’acquisto della personalità giuridica e tale approvazione è di competenza statale o regionale secondo i criteri fissati dagli art. 5 e 7 dello stesso D.P.R.-

Per gli enti riconosciuti che rivestono la qualifica di ONLUS, quindi, nel caso in cui la delibera di adeguamento al CTS sia stata sottoposta ad efficacia differita secondo le indicazioni della A.E., il problema che si pone è quello di stabilire in quale momento tale delibera dovrà essere depositata per l’approvazione amministrativa ex art. 2 D.P.R. 361/2000 cit. e per la conseguente iscrizione nel registro delle persone giuridiche ex art. 4 II co. D.P.R. cit..

A tale riguardo preliminarmente va chiarito che non essendo previsto un obbligo del notaio di provvedere al deposito degli atti sottoposti all’approvazione amministrativa prescritta dal D.P.R. 361/2000, il problema prospettato può assumere una rilevanza notarile solo nell’ambito dell’attività di consulenza svolta relativamente agli adeguamenti al CTS.

Sul tema l’orientamento qui sostenuto è nel senso che per le ONLUS iscritte nel registro delle persone giuridiche, nel caso prospettato nella prassi amministrativa sopra indicata e cioè quando la delibera di modifica statutaria sia stata adottata ai fini dell’adeguamento al CTS con efficacia differita alla definitiva abrogazione della normativa ONLUS, l’approvazione regionale o statale ex art. 2 D.P.R. 361/2000 dovrà essere richiesta dopo il termine iniziale dal quale le modifiche statutarie deliberate diventeranno definitivamente efficaci.

La soluzione proposta appare sostenuta da una pluralità di argomenti.

Innanzitutto sotto un profilo generale e sistematico l’approvazione consiste in un provvedimento amministrativo adottato nell’esercizio di una funzione di controllo con la quale la P.A., una volta valutata la legittimità e/o l’opportunità di un atto, esprime un giudizio favorevole cui consegue che l’atto approvato sarà in grado di produrre tutti i suoi effetti.

Ciò implica quindi che gli effetti dell’atto da approvare devono essere sospesi solo in attesa del giudizio favorevole dell’autorità controllante e non possano essere sottoposti a ulteriori condizioni o termini, in quanto altrimenti il controllo stesso sarebbe inattuale e quindi privo di una reale ragione sostanziale.

Nel nostro caso quindi se l’efficacia della delibera di modifica statutaria è stata differita alla definitiva abrogazione della normativa ONLUS ex art. 104, comma 2, del CTS, solo dopo questo momento l’atto da approvare sarà strutturalmente perfetto, completo in tutte le sue parti e quindi idoneo ad essere sottoposto all’approvazione amministrativa.

Sotto il profilo logico, inoltre, il quadro normativo generale e/o l’assetto particolare dell’ente in questione (si pensi ad esempio al profilo patrimoniale) potrebbero variare nel tempo, sicchè il potere amministrativo di controllo può compiutamente esplicarsi solo nel momento a partire dal quale l’ente ha autonomamente ritenuto far decorrere l’efficacia delle modifiche statutarie deliberate.

Ed invero va considerato che, quando le modifiche statutarie diventeranno efficaci e la relativa delibera di adeguamento al CTS verrà depositata per l’approvazione regionale o statale ex art. 2 D.P.R. 361/2000, dovrà comunque tenersi conto anche della normativa di attuazione che prevedibilmente sarà emanata sia per il coordinamento tra l’attuale registro delle persone giuridiche e il registro del terzo settore (che allora sarà diventato operativo) sia per il caso di eventuale trasmigrazione dall’uno all’altro registro.

[1] Cfr l’interpretazione autentica data all’articolo 104, commi 1 e 2 del codice medesimo ad opera dell’articolo 5-sexies del D.L. n. 148/2017.

Con norma temporanea, valevole fino al 31 luglio 2020 o fino al termine dell’emergenza COVID-19, è stabilita la possibilità anche in deroga alle previsioni statutarie di svolgere le assemblee di società con mezzi di telecomunicazione e di utilizzare mezzi elettronici o di corrispondenza per il voto. Tali modalità, nelle diverse declinazioni previste dalla norma del II comma dell’art. 106 del D.L. 18/2020, non costituiscono deroga all’art. 2375 c.c. se non per la previsione della dislocazione in luoghi diversi del Presidente, del Segretario o del Notaio; integrano invece il disposto dell’art. 2366 quanto al contenuto dell’avviso di convocazione e dell’art 2370 c.c. riguardo alle modalità di tenuta delle assemblee mediante mezzi di telecomunicazione.

Art. 106, comma 2, D.L. 18/2020.

La norma prevede due diverse modalità di svolgimento dell’assemblea delle società di capitali, cooperative e mutue assicuratrici.

Entrambe consentono, per il periodo fino al 31 luglio 2020 (o fino al termine dell’emergenza COVID) la possibilità di convocare l’assemblea anche in deroga alle disposizioni statutarie, precisando nell’avviso di convocazione le modalità di svolgimento dell’assemblea.

La prima modalità consiste nella espressione del voto in via elettronica (ad esempio con mail, pec, ma anche con sistemi di messaggistica on line se messi opportunamente a disposizione degli aventi diritto) e nella tenuta della seduta assembleare medianti mezzi di telecomunicazione.

La seconda consiste nello svolgimento dell’assemblea e nell’esercizio del diritto di voto anche esclusivamente mediante mezzi di telecomunicazione, senza in ogni caso la necessità che si trovino nello stesso luogo il presidente il segretario o il notaio.

La norma non muta le modalità redazionali previste dall’art. 2375 c.c.: il verbale pertanto dovrà rispettarne i requisiti quanto a forma, dovendo essere sottoscritto dal presidente e/o dal notaio, e quanto a contenuti (data, identità dei partecipanti e capitale rappresentato secondo gli accertamenti del presidente dell’assemblea, modalità e risultati delle votazioni con indicazione nominativa dei voti espressi, anche per allegato).

Il verbale dovrà essere quindi redatto dal notaio che recepirà (salvo situazioni prima facie contraddittorie con quanto da lui percepito) le dichiarazioni del presidente dell’assemblea.

Per quanto riguarda la partecipazione all’assemblea la norma prevede un’integrazione dell’avviso di convocazione, di cui all’art. 2366 c.c., che specifichi i mezzi di telecomunicazione utilizzati. Si ritiene a questo riguardo che debbano essere fornite le opportune informazioni in relazione all’accesso, alle modalità di identificazione, di partecipazione e di votazione.

Le norma in esame integra altresì, in assenza o in deroga a disposizioni statutarie non compatibili, l’art. 2370 c.c., sancendo la possibilità generalizzata di tenere assemblee con mezzi di telecomunicazione che “garantiscano l’identificazione dei partecipanti, la loro partecipazione e l’esercizio del diritto di voto”.

Ciò richiede, dunque, una esplicitazione in sede di convocazione delle tecnologie utilizzate e delle modalità d’uso, compatibili con il dettato legislativo. Appare opportuna analoga esplicitazione anche in sede di verbalizzazione.

Il principio generale della tutela della salute pubblica posto a fondamento del secondo comma dell’art. 106 del D.L. 18/2020 rende applicabile in via estensiva il sistema della videoconferenza (anche in deroga al regime legale e statutario) alle adunanze di tutti gli organi collegiali di società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, società cooperative e mutue assicuratrici.

Il secondo comma dell’articolo 106 del D. L. n. 18 del 17 marzo 2020 – nella parte in cui consente che le assemblee delle società di capitali possano svolgersi esclusivamente con mezzi di telecomunicazione senza necessità che Presidente, Segretario o Notaio si trovino nel medesimo luogo, anche in assenza o in deroga a specifiche disposizioni statutarie – introduce un principio generale ispirato da ragioni di tutela della salute pubblica applicabile a tutte le adunanze degli organi societari delle società di capitali e pertanto è possibile che si svolgano in videoconferenza ai sensi della citata normativa le adunanze di tutti gli organi amministrativi e di controllo delle società di capitali, anche in assenza o in deroga alle specifiche previsioni statutarie. Tale conclusione è d’altronde coerente con il principio ormai consolidato in dottrina e giurisprudenza per il quale alla verbalizzazione delle adunanze degli organi societari diversi dall’assemblea si applicano le medesime regole previste per le deliberazioni assembleari.

Art. 106 D.L. 18/2020 – assemblea totalitaria – sistema della videoconferenza – applicabilità

Anche in assenza di avviso di convocazione è applicabile la norma emergenziale del II comma dell’art. 106 del D.L. 18/2020 purchè ricorrano le condizioni di legge per la valida costituzione di adunanze “non convocate”.

Il secondo comma dell’articolo 106 del D. L. n. 18 del 17 marzo 2020 – nella parte in cui prevede che “l’avviso di convocazione” può prevedere che le assemblee delle società di capitali possano svolgersi esclusivamente con mezzi di telecomunicazione senza necessità che Presidente, Segretario o Notaio si trovino nel medesimo luogo, anche in assenza o in deroga a specifica disposizioni statutarie – introduce un principio generale ispirato da ragioni di tutela della salute pubblica e pertanto appare possibile che le adunanze degli organi delle società di capitali si svolgano in videoconferenza, pur in assenza di formale avviso di convocazione, purchè ricorrano i presupposti richiesti dalla legge (per le assemblee: articolo 2366, comma 4 e articolo 2479 bis ultimo comma del codice civile) o dallo statuto per la regolare costituzione delle adunanze in assenza di convocazione.

Non è possibile che, nell’ambito della verbalizzazione in audio/video conferenza ai sensi del secondo comma dell’articolo 106 del D.L. 18/2020, vengano perfezionate disposizioni a contenuto negoziale per le quali si renda necessaria la forma scritta, ovvero dell’atto pubblico e/o della scrittura privata autenticata anche ai soli fini pubblicitari.

Il secondo comma dell’articolo 106 del D. L. n. 18 del 17 marzo 2020 – nella parte in cui consente che le assemblee delle società di capitali possano svolgersi anche esclusivamente con mezzi di telecomunicazione senza necessità che Presidente, Segretario o Notaio si trovino nel medesimo luogo, anche in assenza o in deroga a specifiche disposizioni statutarie – introduce una deroga alle modalità di svolgimento delle adunanze e non anche alle modalità di perfezionamento delle convenzioni a contenuto patrimoniale. Ne consegue che non sarà possibile tenere adunanze con le modalità previste dal secondo comma dell’articolo 106 del D.L. n. 18/2020 in tutte quelle ipotesi in cui, nell’ambito della verbalizzazione, siano rese dichiarazioni a contenuto negoziale per le quali è richiesta la forma scritta, ovvero dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata per l’esecuzione dei successivi adempimenti. Pertanto, a titolo esemplificativo, ai sensi della citata normativa senza necessità che Presidente, Segretario o Notaio si trovino nel medesimo luogo: sarà ben possibile la verbalizzazione delle assemblee con le quali sono deliberati aumenti onerosi del capitale sociale da liberare con conferimento di immobili, di aziende e/o di altri beni iscritti in pubblici registri, ma non sarà invece possibile procedere alla contestuale sottoscrizione (e liberazione) degli aumenti.

Il terzo comma (come il secondo) dell’art. 106 D.L. 18/2020 è applicabile anche alle srls.

Atteso che il terzo comma dell’articolo 106 del D. L. n. 18 del 17 marzo 2020 consente che nelle società̀ a responsabilità̀ limitata l’espressione del voto possa avvenire mediante consultazione scritta o per consenso espresso per iscritto, anche in deroga a quanto previsto dalle disposizioni statutarie (non solo le modalità di formazione della volontà assembleare di cui al comma II del richiamato articolo 106 ma anche) tale modalità di adozione delle decisioni dei soci può trovare applicazione per la società a responsabilità limitata semplificata, le cui disposizioni Statutarie, conformi al modello standard e silenti per definizione sul punto, sono per l’appunto derogate. Il tutto ovviamente nel rispetto dei limiti temporali di cui al comma 7 dell’articolo 106.

La decisione di trasformare una società di persone in società di capitali può essere assunta a maggioranza anche nelle società costituite anteriormente all’entrata in vigore dell’articolo 2500 ter cod. civ., se i patti sociali non dispongono diversamente.

Salva la possibilità che l’interpretazione in concreto dei patti sociali conduca a diversa conclusione, deve ritenersi che, nella maggior parte dei casi, l’eventuale generico rinvio contenuto negli stessi, quanto alle modifiche dell’atto costitutivo, alle norme vigenti in materia, non integri la ‘diversa disposizione del contratto sociale’ da cui discende la necessità del consenso unanime dei soci.

Salva la possibilità che l’interpretazione in concreto dei patti sociali conduca a diversa conclusione, deve ritenersi che, nella maggior parte dei casi, l’eventuale richiamo specifico, contenuto negli stessi, quanto alle modifiche dell’atto costitutivo, all’articolo 2252 codice civile, viceversa, integri la ‘diversa disposizione del contratto sociale’ da cui discende la necessità del consenso unanime dei soci.

L’articolo 2500 ter, primo comma, codice civile, nello stabilire che Salvo diversa disposizione del contratto sociale, la trasformazione di società di persone in società di capitali è decisa con il consenso della maggioranza dei soci determinata secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili non opera alcuna distinzione tra le società costituite ‘ante riforma’ e quelle costituite dopo (1). Nonostante la chiarezza del tenore letterale della norma e l’assenza di disposizioni transitorie volte a limitarne l’operatività, parte della dottrina e della giurisprudenza di merito ha ritenuto che la norma in questione non sia riferibile alle società costituite anteriormente alla sua entrata in vigore e ciò indipendentemente dalla circostanza che i relativi patti sociali prevedano o meno specifiche clausole in tema di modificazioni del contratto sociale o dell’atto costitutivo in genere, o di trasformazioni in specie (2). Alla base di questa lettura restrittiva vi sarebbe la necessità di una interpretazione dell’articolo 2500 ter che sia rispettosa del principio di cui all’articolo 11 delle ‘preleggi’ per cui La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo.

Appare, tuttavia, che tale interpretazione si risolve nella pretesa della ultrattività della disciplina precedente (3), l’articolo 2500 ter non disponendo affatto per il passato bensì intervenendo a regolamentare un rapporto pendente tra i soci, in quanto tale soggetto allo ius superveniens che trova applicazione ratione temporis.

La previsione della sufficienza della maggioranza – in tutte le società personali, senza distinzioni – per l’assunzione della decisione di trasformazione può essere messa fuori gioco dalla diversa disposizione del contratto sociale.

Laddove l’atto costitutivo non contenga alcuna disposizione specifica quanto alle modifiche dell’atto costitutivo né alcun rinvio alle norme dettate per le società personali, nel disinteresse dei soci per le decisioni modificative del contratto sociale – tra le quali comunque si annovera la trasformazione progressiva – trova applicazione, alla luce di quanto innanzi affermato, la disciplina suppletiva di cui all’articolo 2500 ter, vigente (4).

Frequentemente, tuttavia, i patti sociali delle società personali contengono un generico rinvio alle norme di legge vigenti in materia. Per quanto sia astrattamente possibile che nell’interpretare la singola clausola, indagando la comune intenzione delle parti, secondo il canone ermeneutico di cui all’articolo 1362 codice civile, si addivenga a diversa conclusione, si ritiene che nella maggior parte dei casi – anche in considerazione della possibilità che le parti siano cambiate nel corso del tempo, per effetto di mutamenti nella compagine sociale – detto generico rinvio non valga ad integrare la diversa disposizione fatta salva nell’íncipit  dell’articolo 2500 ter: lo stesso deve intendersi come rinvio alle disposizioni tempo per tempo vigenti e, pertanto, non come rinvio fisso ma come rinvio mobile all’intero tessuto normativo, nell’ambito del quale la previsione oggi calata nell’articolo 2500 ter prevale sulla regola unanimistica generale, di cui all’articolo 2252 codice civile. La clausola di rinvio generico alle norme vigenti, di per sé, non esprime alcuna volontà negoziale, costituendo esplicitazione del fatto che solo su alcuni aspetti i soci hanno previsto una autonoma disciplina, per il resto non decidendo e mancando, quindi, l’autonoma volontà statutaria. Nella difficoltà di ricostruire la comune intenzione delle parti e di avvalersi del canone interpretativo di cui all’articolo 1362 codice civile, d’altronde, si può e si deve fare ricorso alle pratiche generali interpretative di cui all’articolo 1368 codice civile, le quali depongono per un rinvio mobile più che per un rinvio fisso: esemplificativamente, il rinvio alle maggioranze di legge nella determinazione dei quorum per la assunzione delle decisioni assembleari viene sempre interpretato come rinvio alle maggioranze tempo per tempo vigenti e non certo alle maggioranze previste al tempo del ‘confezionamento dei patti sociali’; lo stesso vale per tutte le regole di funzionamento della società, diversamente opinando dovendo molte di esse avere tuttora in uso il libro dei soci, come conseguenza di un rinvio presuntamente fisso alle norme di legge in tema di legittimazione all’esercizio dei diritti sociali. Ulteriore elemento che inclina verso tale soluzione è rappresentato da una decisione della Corte Costituzionale (5) la quale, relativamente ad un rinvio contenuto nel testo di una legge, afferma che perché sia possibile configurare un rinvio recettizio (…) occorre che il richiamo sia indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua, diversamente configurandosi un rinvio formale o mobile.

Alla luce di tale canone ermeneutico, fornitoci dal Giudice delle Leggi, laddove i patti sociali contengono non un generico rinvio alle norme di legge vigenti (come tale includente anche l’articolo 2500 ter) ma il richiamo, quanto alle modifiche dell’atto costitutivo, all’articolo 2252 codice civile, trovandoci in presenza di un rinvio fisso, l’unanimità dei consensi entra a far parte delle regole che disciplinano la vita della società, allo stesso modo che se nell’atto costitutivo vi fosse una espressa previsione in tal senso: conseguentemente il richiamo all’articolo 2252 codice civile vale ad integrare la diversa disposizione contenuta nel contratto sociale, fatta salva nell’incipit dell’articolo 2500 ter codice civile (6). E ciò tanto per le società costituite antecedentemente alla riforma che per quelle costituite successivamente, in quanto i soci hanno in ogni caso espresso la volontà di rimettere al loro consenso unanime le modifiche dell’atto costitutivo, senza distinzioni, sia pure adeguandosi alla previsione di legge che, richiamando specificamente, hanno dimostrato di conoscere e ‘volere’.  Non è da escludere che, in qualche caso concreto, sia possibile rinvenire la diversa intenzione delle parti che, ai sensi dell’articolo 1362 codice civile, farebbe approdare a conclusione opposta a quella scaturente dal senso letterale delle parole che pure ha un peso; tuttavia non appare sufficiente, allo scopo, ragionare della circostanza che i soci, nel darsi, ante riforma, le regole di funzionamento della società, non hanno riservato specifico riguardo al caso della trasformazione (in quanto precedenza non oggetto di autonoma considerazione da parte del legislatore), perché inferire dal mancato espresso riferimento a detta fattispecie l’esclusione dell’applicazione ad essa della regola unanimistica, appare, più che il possibile risultato della ricerca della comune intenzione delle parti, il risultato della ricerca di quella che avrebbe potuto essere la loro comune intenzione, se avessero conosciuto la norma di cui all’articolo 2500 ter, così come sarebbe successivamente entrata in vigore: un esercizio che appare esorbitare dal canone interpretativo di cui all’articolo 1362 codice civile. D’altro canto, la regola presupposta e tenuta in considerazione dai soci, nel richiamare l’articolo 2252, è quella unanimistica, alla quale essi hanno rinviato quando – salvo voci contrarie – avrebbero potuto derogarvi.

Spingere alle estreme conseguenze il ragionamento fondato sulla ricerca dell’ipotetica volontà dei soci, dovrebbe determinare la conclusione (7) che, pure in presenza di uno statuto dove la regola unanimistica non è presente quale frutto di un rinvio bensì in dipendenza della espressa previsione della stessa, la regola della maggioranza si impone, onerando conseguentemente i soci di società preesistenti alla riforma, di attivarsi in ogni caso per esplicitare la volontà di sottrarsi al nuovo precetto che allora si applicherebbe sempre e comunque, travolgendo e svalutando, più che valorizzando, l’intenzione delle parti.

__________________________________________________

(1) Così Antonio Ruotolo – Trasformazione di società di persone in società di capitali. Maggioranza o unanimità e forma della decisione – Quesito n. 74-75-2008/I – Anno 2008, n. 3; Federico Tassinari, in 4. La Trasformazione delle Società, di Federico Tassinari e Marco Maltoni – Ipsoa, 2005, pag.95.

(2) Montalenti, La riforma delle società di capitali: prospettive e problemi, in Società, 2003, 343; Massima Comitato Notarile Triveneto K.A.19 – (NON APPLICABILITÀ DELL’ART. 2500 TER, COMMA 1, C.C. ALLE SOCIETÀ COSTITUITE PRIMA DELLA SUA ENTRATA IN VIGORE – 1° pubbl. 9/06).

(3) Trib. Spoleto, Sentenza 14 luglio 2016, RG 679/2016.

(4) Rosella Manfrè, Trasformazione a maggioranza di società di persone in società di capitali, Nota a Commento di ord. Trib. Milano sez. VIII, 28 febbraio 2005 e decr. Trib. Milano sez. VIII, 13 dicembre 2004, in NOTARIATO, Ipsoa, n. 4/2005.

(5) Corte Costituzionale, sentenza 9 luglio 1993 n. 311.

(6) Contrari Federico Tassinari, in 4. La Trasformazione delle Società, Ipsoa, 2005, 95 e segg. e Massima Consiglio Notarile di Milano n. 55 del 19 novembre 2004 – Trasformazione, fusione e scissione di società di persone con decisione a maggioranza.

(7) Conclusione alla quale perviene Federico Tassinari, in 4. La Trasformazione delle Società, Ipsoa, 2005, pag.97.

Il potere di rappresentanza dell’organo amministrativo di società a responsabilità limitata è generale e consente di impegnare la società, nei limiti della c.d. exceptio doli, anche nelle ipotesi di compimento di operazioni sostanzialmente modificative dell’oggetto sociale.

La riserva di competenza assembleare, propria dell’articolo 2479, comma 2, n. 5 c.c., non intacca il potere di rappresentanza, bensì designa esclusivamente un limite al potere gestorio. La conclusione di un contratto, in difetto di delibera assembleare ex art. 2479, co. 2, n.5 c.c., lungi dal provocare una forma di patologia dell’atto in termini di invalidità o inefficacia, integra un inadempimento degli obblighi imposti all’organo amministrativo e può valere quale giusta causa di revoca o fungere da presupposto per un’azione di responsabilità.

Negli ultimi anni la giurisprudenza di merito è più volte intervenuta sul tema della negoziazione dell’azienda da parte di società a responsabilità limitata (1). La cessione, il conferimento, l’affitto dell’intero complesso aziendale (di un ramo d’azienda o addirittura di un singolo asset) sono stati sussunti nell’ambito applicativo dell’articolo 2479, comma 2, n.5, c.c., in quanto operazioni tali da comportare una sostanziale modifica dell’oggetto sociale, riservate alla competenza dell’assemblea dei soci. La riferita corrente giurisprudenziale fonda le proprie convinzioni sulla riconducibilità della norma ex articolo 2479 bis, comma 2, n.5, c.c. all’alveo delle c.d. limitazioni legali del potere di rappresentanza. La riserva di competenza dell’assemblea costituirebbe un limite legale al potere di rappresentanza dell’organo amministrativo e, in quanto tale, costituirebbe ipotesi sottratta al principio della rappresentanza generale, di cui all’articolo 2475 bis c.c. (2). Il difetto della delibera assembleare sarebbe, pertanto, sempre opponibile al terzo che abbia contratto con la società, indipendentemente dall’ipotesi di dolo del terzo contraente. Le conseguenze giuridiche connesse alla mancanza della delibera assembleare sono state variamente formulate dalla stessa giurisprudenza. Secondo una prima tesi, il contratto stipulato dall’organo amministrativo sarebbe affetto da annullabilità (3). Secondo una diversa prospettazione, la patologia del contratto andrebbe qualificata in termini di inefficacia (4). Ulteriore ricostruzione giurisprudenziale predilige una sanzione più radicale, discorrendo di nullità del negozio (5).

Simili impostazioni vanno respinte con decisione.

L’automatica riconduzione delle ipotesi al vaglio nell’ambito delle modifiche sostanziali dell’oggetto sociale pare operazione ermeneutica aprioristica, se non del tutto errata. In realtà non è affatto semplice stabilire se il perfezionamento di un contratto possa comportare, o meno, un simile effetto giuridico. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla cessione di un marchio, all’alienazione di un immobile aziendale, alle operazioni di cessione o di affitto di piccoli esercizi commerciali. Può dirsi, sempre e comunque, che simili attività siano in grado di modificare sostanzialmente l’oggetto sociale? Certamente no. La risposta non può essere data sulla base dell’astratta valutazione della tipologia negoziale al vaglio ma, unicamente, avendo riguardo alla fattispecie concreta, ossia in funzione del rilievo assunto dal singolo negozio giuridico nel più ampio quadro dell’attività svolta dalla compagine sociale. Lo stesso criterio vale anche per l’ipotesi, più evidente e paradigmatica, relativa alla cessione dell’intero complesso aziendale. A riguardo, la stessa giurisprudenza, nell’esprimere un giudizio di disvalore sul sinallagma contrattuale, ha dovuto operare un riferimento a circostanze esogene e succedanee rispetto al perfezionamento del contratto (la cessione dell’azienda non seguita dal contestuale riacquisto di ulteriore complesso aziendale). Circostanze, dunque, di carattere concreto, legate anche a fattori cronologicamente posteriori alla stipula dell’atto. Circostanze, pertanto, del tutto estranee alla capacità valutativa del notaio rogante, da rimettersi esclusivamente alla prudente stima dell’organo amministrativo.

La mera possibilità (e non la necessità) che la negoziazione dell’azienda impinga nella lettera dell’articolo 2479, comma 2, n.5 c.c., crea rilevanti problematiche di ordine pratico. A fronte del quadro di incertezza scaturente dalla disamina che precede, si potrebbe essere indotti a richiedere sempre e comunque, in nome di una supposta prudenza operativa, un preventivo vaglio assembleare dell’operazione, con evidente nocumento della speditezza e della celerità dei traffici giuridici.

Il tutto in patente spregio delle norme di rango comunitario e dei principi espressi dalla riforma del diritto societario del 2003. Il quinto considerando della direttiva 2017/1132/UE sostiene che “la tutela dei terzi dovrebbe essere assicurata mediante disposizioni che limitino, nella maggior misura possibile, le cause di invalidità delle obbligazioni assunte in nome delle società per azioni e delle società a responsabilità limitata”. Nello stesso senso l’articolo 9 direttiva 68/151/CEE (oggi confluito nell’articolo 10 direttiva 2009/101/CE) secondo cui “anche se pubblicate, le limitazioni dei poteri degli organi sociali che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi”. Alla stregua del diritto comunitario si esprime il legislatore nazionale. Basti pensare all’articolo 3, comma 1, lettera c, legge 3 ottobre 2001 n.366 (legge delega al governo per la riforma del diritto societario) che, nel definire i principi per la riforma della disciplina della società a responsabilità limitata, ne statuisce la libertà delle forme organizzative ma, si badi, nel rispetto del “principio di certezza dei rapporti con i terzi”. La riforma del 2003 si muove nella stessa direzione. Il legislatore ha portato a compimento l’evoluzione normativa iniziata con il recepimento della direttiva CEE n.151/1968, sancendo il carattere inderogabilmente generale del contenuto della rappresentanza. Tale opzione normativa mira a favorire i traffici commerciali delle imprese societarie capitalistiche, esonerando i terzi dall’effettuare accertamenti in merito alla portata del potere di rappresentanza dell’amministratore, il tutto a vantaggio della speditezza gestionale della società. Una diretta conseguenza delle citate disposizioni può cogliersi proprio riguardo al tema dell’oggetto sociale. Dal 2003, nella S.R.L. (come nella S.P.A.) l’oggetto sociale non è più configurabile come limite del potere di rappresentanza. Il compimento di atti ultra vires da parte dell’organo amministrativo impegna validamente la società, salvi i limitati casi di dolo del terzo contraente, ai sensi dell’articolo 2475 bis c.c..

E proprio qui il paradosso si fa evidente. Accogliere le riferite prospettazioni giurisprudenziali equivarrebbe “a far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta”. L’oggetto sociale tornerebbe, in modo indiretto, a rappresentare un limite al potere di rappresentanza degli amministratori, con ciò ripristinando l’abrogata regola contenuta dal previgente articolo 2487 c.c.-. Né, a tal fine, varrebbe distinguere tra “deviazioni occasionali” e “modifiche permanenti” dell’oggetto: si tratta di indici estranei alla lettera della legge e, in quanto tali, del tutto surrettizi (6). Una lettura armonica dell’ordito normativo può essere eseguita valorizzando la capacità funzionale dell’organo amministrativo, detentore del complesso dei poteri idonei a costituire l’espressione dell’attività sociale. La riserva di competenza propria dell’articolo 2479, comma 2, n. 5 c.c. riguarda esclusivamente il potere gestorio: il potere di rappresentanza resta generale e consente di impegnare la società nei limiti della c.d. exceptio doli (7). Le articolazioni del potere gestorio esauriscono la propria rilevanza sul piano dei rapporti interni alla società. La conclusione di un contratto in difetto di delibera assembleare, ex art. 2479, co.2, n.5 c.c., lungi dal provocare una forma di patologia dell’atto in termini di invalidità o inefficacia, integra un inadempimento degli obblighi imposti all’organo amministrativo e può unicamente valere quale giusta causa di revoca o quale presupposto per un’azione di responsabilità (8).

____________________________

(1) Trib. Roma, 28 aprile 2011, in Vita not., 2011, 1016; Trib. Piacenza, 14 marzo 2016, in Banca, borsa, titoli di credito, 2017, II, 377 con nota di N. De Luca, Da “Holzmüller e Gelatine” a “Bulli e Pupe”. Competenze implicite dell’assemblea e limiti legali ai poteri degli amministratori nelle società di capitali e in CNN Notizie del 23 marzo 2016, con nota di A. Paolini, D. Boggiali e A. Ruotolo. Trib. Roma, Sez. impresa, 3 agosto 2018, in Società, 2018, 1371 ss., con nota di N. De Luca e A. Gentile, Cessione dell’intera azienda: limiti legali ai poteri degli amministratori e nullità degli atti e in CNN Notizie del 3 aprile 2019, con nota di A. Paolini e D. Boggiali; Trib. Milano, Sez. impresa, 5 novembre 2017 in Notariato, 2018, 439 con nota di M. Ferrari, Nullità di un contratto di affitto di azienda in difetto della preventiva decisione dei soci. Trib. Roma, Sez. impresa, 27 gennaio 2020, in Società, 2020, 425 e ss., con nota di N. De Luca e A. Gentile, Dalla cessione al conferimento (senza poteri) dell’intera azienda.

(2) G. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, in Comm. cod. civ. Schlesinger – Busnelli, Milano 2010, 1008; P. Spada, Classi e tipi di società dopo la riforma organica (guardando alla “nuova” società a responsabilità limitata), in Le grandi opzioni della riforma del diritto e del processo societario, a cura di M. Cian, Padova, 2004, 40; O. Cagnasso, La società a responsabilità limitata, in Tratt.Dir. Comm., dir. da G. Cottino, Torino, 2007, 356.

(3) Trib. Piacenza, 14 marzo 2016, cit.-.

(4) Trib. Roma, 28 aprile 2011, cit. In dottrina: P. Spada, Classi e tipi di società dopo la riforma organica (guardando alla “nuova” società a responsabilità limitata), cit., 40; S. Ambrosini, sub art. 2475-bis, in G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, Società di capitali. Commentario, Napoli, 2004, 1580 ss.; A. Picciau, Appunti in tema di amministrazione e rappresentanza, in F. Farina, C. Ibba, G. Racugno, A. Serra, La nuova s.r.l. Prime letture e proposte interpretative, Milano, 2004, 253; R. Rordorf, Decisioni dei soci di s.r.l.: competenza e modi del decidere, in Società, 2006, 1202.

(5) Trib. Roma, Sez. impresa, 3 agosto 2018, cit; Trib. Roma, Sez. impresa, 27 gennaio 2020, cit; Trib. Milano, Sez. Impresa, 5 novembre 2017, cit.-.

(6) Trib. Roma, Sez. impresa, 3 agosto 2018, cit.-.

(7) N. Abriani, sub art. 2475 bis, in Codice commentato delle s.r.l., diretto da P. Benazzo e S. Patriarca, 2006, 352; M. Sciuto, Problemi in materia di potere rappresentativo degli amministratori di s.r.l., in Riv. soc., 2014, 28 ss.; F. Briolini, Gli strumenti di controllo degli azionisti di minoranza sulla gestione, in Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, 24 ss.; A. Paolini, Le modificazioni di fatto dell’oggetto sociale, Milano, 2014, 313 ss.; M. Palazzo, Potere gestorio e decisioni modificative della struttura dell’impresa nelle s.r.l. Ripensando la lezione metodologica di Tullio Ascarelli, in Riv. dir. impresa, 3/2019, 1593.

(8) Sulla problematica in commento non pare possa incidere in maniera significativa la recente riforma di cui al Decreto Legislativo 12 gennaio 2019 n.14. Si allude, in modo particolare, alla portata del nuovo testo dell’articolo 2475 c.c. che, similmente a quanto previsto per gli altri tipi societari, affida al solo organo amministrativo la “gestione dell’impresa”. Senza addentrarsi in un dibattito teorico che necessiterebbe di ben altro spazio, in simile contesto si esprime predilezione per quella teorica che riferisce la “gestione” a meri aspetti organizzativi (predisposizione degli assetti organizzativi, monitoraggio sul funzionamento dei medesimi, adozione di interventi di adeguamento ed aggiornamento), non alla gestione operativa della società: le regole che presiedono alla spendita del nome della società da parte dell’organo amministrativo non ne risultano intaccate (Cfr.: N. Atlante, M. Maltoni, A. Ruotolo, Il nuovo art. 2475 c.c. Prima lettura. Studio CNN n. 58-2019/I).